Racconti come missione etica
La sfida del collettivo Arbok
Approfondimento del 18/07/2016 di Matteo Ferrari

A
luglio il collettivo Arbòk inizierà la sua terza stagione. 25 i numeri fin qui
pubblicati - compreso il numero 0 con cui nel luglio 2014 era stata lanciata
l’iniziativa - e 16 gli autori coinvolti. Ne abbiamo parlato con Giorgio
Genetelli, uno dei motori di questo esperimento letterario davvero unico nel
suo genere.
Viceversa:
Andiamo diretti al dunque. Perché una collana di racconti, e soprattutto perché
l’invio per posta? Da cosa è nata l’idea (o la necessità) di questo binomio?
Giorgio
Geneteli: La collana di racconti era stata, all’inizio, una scelta strategica
da parte dell’editore Franco Lafranca. Io avevo molti racconti pronti, con i
quali si sarebbe potuto fare un libro. È stato Franco a dirmi: “No, questi
racconti li pubblichiamo uno alla volta”. L’iniziativa è nata così. Abbiamo allora
cominciato a pensare alle scadenze, a che materiale usare (i racconti Arbòk
sono stampati con carta povera; niente di ricercato o di patinato). L’idea era
un libretto che uscisse mensilmente, un po’ come un fumetto: a basso costo,
leggibile in poco tempo e che avesse potuto attrarre anche quelli – per dire –
che saltano sul treno a Locarno il mattino e in mezzora riescono a leggere il
libro. Poi abbiamo pensato che forse si poteva proporre una formula per
abbonamento e abbiamo cominciato a immaginare come finanziare la cosa.
All’inizio li abbiamo distribuiti anche di persona: prendevo la moto e facevo
il giro a portare i numeri nelle librerie del Ticino. Non abbiamo però
incontrato un grande aiuto. Anzi, dirò di più: sono abbastanza deluso del
sostegno ricevuto. A molti è sembrato che un libricino in formato dimesso fosse
una cosa da sottovalutare. Ho avuto l’impressione che si desse quasi più valore
alla forma senza interessarsi dei contenuti. Distribuire il prodotto nelle
librerie senza una collaborazione da parte loro era difficile, e quindi ecco
che abbiamo ripiegato sull’abbonamento. Gli abbonati attualmente sono 350, ma
noi stampiamo 1000 copie al mese.
Un’altra
particolarità dei vostri racconti sono le copertine…
Le
copertine sono fatte una per una da Gabriele Zeller, giovane artista di
Cavigliano. Ogni mese Gabriele legge il testo in anteprima, si lascia ispirare
e prepara un disegno. Questa delle copertine la trovo una cosa bellissima.
Voi
però siete un collettivo.
Sì.
Idealmente la squadra è composta da tutti gli autori che scrivono; possiamo
però dire che c’è uno zoccolo duro composto da Walter Rosselli, Fosca
Bernasconi, Francesco Giudici, Franco Lafranca e dal sottoscritto. A loro si
aggiungono Gabriele Zeller e Cok De Marchi, copertinista e grafico, e Fabiana
Bassetti, che ci dà un grande aiuto per la promozione. Io e Franco Lafranca
viviamo vicini; gli altri sono sparpagliati per tutta la Svizzera. Walter
Rosselli ad esempio vive in Romandia. Il collettivo ha senso in quanto tale
proprio perché non ha una conformazione precisa. Io m’impegno per coordinare le
cose, è vero, ma lo faccio perché mi piace. Non c’è altrimenti una struttura
verticistica. Il collettivo poi ci fa restare anonimi. In un collettivo ti puoi
mettere al servizio degli altri, non per mascherarti ma per metterti al
servizio dell’opera. Il culto del personaggio è una cosa terribile, e purtroppo
esiste anche nella cultura popolare, dal cinema alla musica alla letteratura.
E
la selezione dei testi, come avviene?
Generalmente
sono gli autori (conosciuti o sconosciuti) che ci inviano i loro testi. Poi,
quando questi testi provengono da autori nuovi, facciamo una specie di consulto
via email con Giudici, Bernasconi e Rosselli; non proprio un editing, piuttosto
un capire se ci sono delle perplessità. Una volta che abbiamo liberato il campo
dai dubbi, sono io che mi occupo di fare un po’ di editing, se è il caso;
soprattutto a livello redazionale.
Generalmente
i testi sono già scritti abbastanza bene quando ci vengono consegnati. E noi
vogliamo che gli autori mantengano le loro voci, a volte anche molto popolari.
Trovo bella questa spontaneità. Forse certe espressioni che si leggono nei
racconti farebbero arricciare il naso ai puristi, ma noi troviamo che questa
spontaneità abbia un senso. Ogni tanto poi scrive per noi qualche autore che ha
già pubblicato: è capitato ad esempio con Alessandro Martini e Arnaldo Alberti.
Più
il numero dei racconti aumenta, più mi rendo conto (senza peccare di
presunzione) che questo progetto vada a delineare un corpo sociale, una visione
della società tramite la letteratura. E all’interno del progetto ciò mi sembra
che diventi anche una forma di resistenza civile, che è poi anche uno dei sensi
del collettivo. Io almeno, come autore, cerco proprio questo, per una mia
visione libertaria della vita. Mi sembra che i racconti vadano piano piano a
formare un insieme che si potrebbe contrapporre alla valanga di notizie che riceviamo
quotidianamente. A volte siamo tentati di pensare che siano queste notizie a
connotare la nostra vita, quando invece la vita sta da un’altra parte: nella
bellezza, nell’attenzione, nei punti di vista diversi. Mi sembra che senza
volerlo il progetto stia andando proprio in questa direzione e ne sono felice,
anche se magari tutto ciò va a scapito della qualità letteraria. Mi sembra
insomma che stia venendo fuori qualcosa di “culturale” nel senso civile del
termine. In questi tempi in cui sembra difficile dire delle cose, prendere
delle posizioni chiare, opporsi, i racconti assomigliano molto a una forma di
resistenza popolare, che io chiamo “ticinese” senza paura di essere
provinciale, dal momento gli autori che pubblicano da noi in fondo sono tutti
ticinesi e raccontano quasi tutti storie del territorio. Forse è un modo per
non dare il Ticino in pasto al cemento e ai vaneggiamenti della politica.
Vi
sentite dunque un po’ dei rivoluzionari…
Certo,
e ci teniamo molto a questa nostra specificità. È chiaro che se riusciamo a
coprire i costi è meglio, ma la nostra è soprattutto un’opera d’idealismo: il
credere nella condivisione della parola, in un mondo dove «tutto - come dice De
Gregori - ha un costo e niente ha un valore». Normale: io, Lafranca e Rosselli
partiamo da posizioni anarchiche. Non vorrei però fare un discorso politico.
Vogliamo infondere questo idealismo nel progetto per far vedere che si può
ancora fare qualcosa per gli altri e con gli altri senza per forza doverlo
mascherare in un’operazione commerciale. I nostri soldi ci bastano per
stampare, pagarci da bere e dare qualcosa al grafico. Per noi è tutto lì. Il
senso del nostro lavoro è la ricerca di un’etica. Poi magari non la troviamo,
ma almeno la cerchiamo…
Avete
appena lanciato la campagna abbonamenti per il 2016. Avete abbonati anche fuori
dal Ticino?
Sì,
qualcuno nella Svizzera francese, qualcuno nella Svizzera tedesca, diversi
grigionesi. Tutti italofoni, amici residenti altrove. Si vive un po’ sul
passaparola.
Corteggereste
un grande autore?
Forse,
ma allora saremmo molto esigenti con lui. La sua visione e il suo testo
dovrebbero adattarsi alla nostra visione libertaria.
È
pensabile prevedere un’iniziativa del genere all’infinito? Oppure essa ha senso
solo per un periodo limitato di tempo?
Io,
prima ancora di cominciare, ho detto: “Cominciamo col fare un numero e poi
andiamo avanti mese per mese e vedrete che terremo 200 o 300 anni!”. Scherzi a
parte, indipendentemente dalla questione economica, io credo che una cosa così
abbia senso fino a quando ne abbiamo voglia. E quando arriva il momento in cui
non si sente più nessuna energia, nessuna vibrazione, allora quello è il
momento di smettere, da piantà lì. Bisogna farlo prima di diventare inutili.
Adesso però non c’è nessuna avvisaglia in questo senso: mi sembra anzi che ci
sia un bell’interesse verso questo spazio dove possano confluire tutti quelli
che hanno qualcosa da dire. Gli autori che hanno pubblicato da noi erano
estremamente felici. Questo è sicuramente uno dei motivi che ci spingono a
continuare: l’apprezzamento dei lettori e quello di chi vede i suoi scritti
pubblicati. È una cosa incredibile.
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